Sentenza Corte d’Appello di Venezia: La banca ha promosso l’esecuzione immobiliare su importi non dovuti, deve restituire più di 520.000 euro e viene condannata per responsabilità aggravata.

È l’epilogo della una vicenda che ha visto lottare un imprenditore veneto per quasi 20 anni affermando che il debito calcolato dalla banca nei confronti della sua impresa fosse stato illegittimamente raddoppiato e che il capannone offerto a garanzia di due mutui fosse stato svenduto ingiustamente.

 

I fatti

La Srl è intestataria di due contratti di mutuo stipulati rispettivamente nel 1988 e nel 1989, nel 1995 la banca risolve i contratti e nel 1996 intraprende un’azione di esecuzione immobiliare. Nel 2005 la Srl propone opposizione all’esecuzione immobiliare denunciando l’indeterminatezza del tasso di interesse corrispettivo, nonché l’indeterminatezza del tasso di mora. Nel 2007 il capannone offerto a garanzia dei mutui viene venduto all’asta nonostante sia stata richiesta la sospensione dell’esecuzione. La Srl mutuataria ritiene che l’indeterminatezza delle clausole contrattuali, i versamenti effettuati e le somme ricavate dalla vendita del capannone, siano sufficienti a ritenere la banca pienamente soddisfatta. Anzi, la banca ha incassato quasi il doppio del dovuto, tuttavia continua ad azionare ulteriori pretese.

 

La vicenda giudiziaria

A seguito dell’azione di esecuzione immobiliare l’imprenditore si oppone all’esecuzione intraprendendo tutte le azioni necessarie a bloccare la vendita dell’immobile ipotecato. I pagamenti successivi alla risoluzione del contratto di mutuo sono stati imputati dalla banca a deconto di interessi corrispettivi e di mora non dovuti, attesa la nullità delle relative clausole di determinazione dei tassi. In sintesi, i versamenti non hanno diminuito l’esposizione debitoria.

Il tribunale di Padova dapprima dispone, comunque, la vendita dell’immobile e successivamente, ritenendo provato il credito della banca, rigetta l’opposizione. L’imprenditore non si arrende, impugna il provvedimento finché dopo alterne vicende, ed un intervento della Corte di Cassazione, la vicenda è esaminata dalla Corte d’Appello di Venezia che, finalmente, dopo circa 16 anni di processi dispone una CTU contabile sui calcoli depositati agli atti di causa.

Il consulente tecnico per l’imprenditore, Dott. Francesco Leo, dopo aver provveduto a sottoporre a puntuale revisione bancaria i documenti contabili contenenti i calcoli sviluppati dalla banca, ha evidenziato che la banca ha richiesto successivamente alla risoluzione del contratto intere rate, comprensive di capitale ed interessi.  E quindi la prima questione affrontata in sede di CTU è:

 

Se la banca dichiara il mutuatario decaduto dal beneficio del termine, secondo l’art. 1186 cc, può pretendere il pagamento delle rate per intero?

Sul punto occorre premettere brevemente che l’ammortamento consiste nella possibilità per il mutuatario di restituire il capitale mutuato, insieme ad una parte di interessi, in maniera frazionata, entro un periodo di tempo ben determinato e secondo modalità puntualmente definite nel contratto. In sintesi, la rata del mutuo rappresenta la modalità di restituzione di capitale. Gli interessi rappresentano il prezzo, che il mutuatario sostiene per il fatto di avere ricevuto il capitale e di restituirlo in piccole quote nel tempo.

Ciò premesso, occorre considerare che il Codice civile, nella specie l’art. 1186 cc, prevede che il creditore possa pretendere in determinate circostanze (insolvenza o diminuzione o mancanza di garanzie) il pagamento dell’intero capitale residuo dichiarando la decadenza dall’ammortamento, cioè privando il mutuatario della possibilità di restituire il capitale a rate.

Pertanto se la banca, o qualunque altro creditore, si avvale di tale facoltà non ha più diritto a ricevere il pagamento degli interessi corrispettivi. Infatti, in quanto “prezzo” della restituzione rateale, gli interessi corrispettivi vengono meno con il venire meno dell’ammortamento.

Dunque, venuto meno l’ammortamento il creditore, nella specie la banca, non ha più diritto a ricevere gli interessi corrispettivi dalla risoluzione dell’ammortamento e per il futuro, ma ha diritto ad ottenere esclusivamente il capitale residuo e gli interessi di mora calcolati sul capitale nella misura concordata.

Ma c’è di più

I contratti di mutuo oggetto della decisione prevedono una clausola di determinazione degli interessi di mora così formulata: “La misura massima degli interessi di mora da corrispondersi dalla parte mutuataria all’istituto sulle somme dovute e non puntualmente pagate sarà quella massima consentita dalle vigenti e future disposizioni di legge”. Il riferimento, come si vede è alla misura massima, di generiche disposizioni di legge, quindi il tasso, di mora in mancanza di riferimenti puntuali è indeterminato ed indeterminabile, sicché trova applicazione il tasso legale.

A questo punto è stato possibile calcolare le somme effettivamente dovute. Pertanto detratte dal dovuto le somme versate il Consulente Tecnico nominato dalla Corte d’Appello ha determinato in 524.021,32 euro l’importo versato in eccesso rispetto al dovuto dall’imprenditore.

La Sentenza sottolinea che durante la CTU la banca ha opposto un “pervicace rifiuto a rendere informazioni al CTU circa l’ammontare della somma percepita in sede di riparto finale” con l’intento, non riuscito, di rendere impossibile al CTU la determinazione dell’indebito. Per tale ragione la Corte d’Appello ha inflitto anche la condanna per responsabilità aggravata.

La sentenza in commento affronta anche un ulteriore tema, quello della possibilità del debitore esecutato di far valere la ripetizione di indebito, oggetto di tenace difesa da parte della banca, che ha da sempre negato che il mutuatario potesse contestare la pretesa creditoria e chiedere qualsiasi restituzione.

 

Se la banca pretende somme in eccesso nell’ambito dell’esecuzione immobiliare, il debitore può chiederne la restituzione?

La corte d’appello risponde a questo quesito nei seguenti termini: “ Il debitore espropriato del maggiore importo in esecuzione dell’ordinanza di assegnazione del giudice dell’esecuzione, è legittimato a ripetere dal creditore la somma assegnata; dunque, il soggetto espropriato che abbia fatto valere l’illegittimità dell’esecuzione, mediante opposizione ex art. 615 cpc accolta successivamente alla distribuzione del ricavato, può esperire, sul presupposto di tale illegittimità, l’azione di ripetizione dell’indebito nei confronti del creditore al fine di ottenere la restituzione di quanto dallo stesso riscosso.

E non può escludersi che la domanda di ripetizione possa essere esperita all’interno dell’opposizione all’esecuzione, trattandosi di domanda che strettamente inerisce e discende dall’accertamento dei limiti del diritto di procedere esecutivamente, per un quantum inferiore alla pretesa azionata. Infatti, deve ritenersi rispondente ad un principio generale, oltre che di economia processuale, consentire la restituzione delle somme corrisposte a seguito del venire meno del titolo esecutivo, come nel caso di riforma della sentenza impugnata, senza che ciò implichi violazione del divieto ex art. 345 cpc.

In buona sostanza, se al mutuatario sono addebitate somme in eccesso rispetto a quelle dovute egli ha diritto a chiederne la restituzione al creditore, fatti salvi i diritti di proprietà del soggetto che ha acquistato l’immobile all’asta.

La sentenza risponde anche ad un ulteriore domanda.

 

Il debitore che abbia pagato somme eccedenti il dovuto nell’esecuzione immobiliare, ha diritto al risarcimento del danno?

Un ulteriore passaggio di sicuro interesse, stigmatizzato nella sentenza, è costituito dal fatto che il debitore che si sia attivato per fare valere i propri diritti ed abbia denunciato, con tutti gli strumenti consentiti dall’Ordinamento le illegittimità di cui si ritiene vittima, è titolare, oltre che del diritto di richiedere in restituzione quanto pagato in eccesso, anche del diritto “di risarcimento del danno nei confronti del creditore che abbia agito senza la normale prudenza”.

È quindi evidente che tutti i danni ascrivibili al creditore procedente in maniera imprudente possono essere oggetto di risarcimento. Nella specie il capannone oggetto di esecuzione era adibito ad opificio, quindi rappresentava un bene strumentale dell’azienda, in mancanza del quale non è stato possibile proseguire l’attività d’impresa.

Conclusivamente, si può affermare che nel contenzioso bancario, nessun dettaglio può essere trascurato e nessuna questione può essere trattata in maniera grossolana. L’attività di revisione bancaria delle scritture contabili, se posta in essere in maniera analitica e non all’ingrosso consente di evidenziare piccoli dettagli che possono fare una enorme differenza anche a distanza di molti anni.

Dott. Francesco Leo

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Foto sentenza Venezia